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Argomenti pro e contro le donne in Euripide dall’analisi della ῥῆσις di “Μήδεια” e di “Ỉππόλυτος” di Bartolucci Chiara. Euripide fu l’ultimo dei “titani” della tragedia greca. Il suo operato viene inserito nel V secolo a.C. in piena età classica ad Atene (485/484-407/406). Inoltre l’antica storiografia letteraria aveva creato una “traditio lampadis” intorno alle figure dei tre grandi tragediografi: Eschilo, Sofocle ed Euripide. Secondo questa leggenda Sofocle avrebbe guidato la danza di ringraziamento degli efebi ateniesi in seguito alla vittoria di Salamina, dove avrebbe combattuto Eschilo durante la battaglia decisiva, giorno di nascita di Euripide. Il teatro euripideo si pone come innovatore rispetto all’operato dei precedenti maestri. Le sue opere, infatti, si inseriscono in un momento di crisi dei valori tradizionali ad Atene, le tragedie, quindi, diventano maggiormente incentrate su aspetti popolari e l’analisi psicologica dei personaggi la fa da padrone. La tragedia si sposta su una visione più antropocentrica e umana, dove non intervengono né eroi né dei. Quest’analisi diventa fondamentale nella descrizione delle figure femminili del teatro euripideo, che non sono più personaggi secondari, ma agiscono in prima persona. Le donne rappresentano la vita quotidiana, sono portatrici di amore, odio, vendetta, gelosia e del desiderio di emancipazione e d’indipendenza. In tal senso è molto interessante porre a paragone l’indagine emotiva di Medea protagonista dell’omonima tragedia e di Fedra nell’“Ippolito”. Entrambe le tragedie si muovono intorno alla tematica dell’amore, dove genera un’alterazione della ragione nell’animo umano. Ciò non è dovuto all’intervento divino (le tragedie sono in chiave umana) che è completamente assente nella “Medea” e che è soltanto simbolico nell’“Ippolito”, dove l’uomo ormai si muove secondo i propri sentimenti. La prima tragedia è incentrata sulla figura di Medea che incarna i connotati dell’eroe tragico. Strappata dalla sua terra d’origine per seguire suo marito Giasone, approda a Corinto con i figli nati dalla loro unione per assistere alle nozze di Giasone con la figlia del re di Corinto Creonte. Lontana dalla sua terra natale e sola, Medea tenta di riconquistare Giasone come si evince dal dialogo tra i due. Non riuscendo nel suo intento, Medea decide di vendicarsi uccidendo ciò che aveva di più prezioso: i figli, vittime e carnefici innocenti della strage meditata dalla madre. Medea è mossa dai sentimenti, un moto tra passione e riflessione (un espediente sui generis si era già avuto in letteratura, ovvero con la figura di Clitemnestra nell’“Orestea” di Eschilo). La pazzia, come si deduce dal suo soliloquio, ha preso il sopravvento. È lontana dai principi della donna del V secolo, infatti non si sottomette all’uomo, non mostra dignità per quanto è accecata dalla vendetta e della follia (“Purchè soffra lui, sono felice di soffrire anch’io”). Nella seconda tragedia, invece, la donna ferita nei sentimenti per un tragico errore, vuole salvare il suo onore, rimanendo paradossalmente lucida nel suo gesto sfrenato dettato dalla passione. Fedra, seconda moglie di Teseo, si è invaghita del suo figliastro Ippolito per punizione divina nei confronti di quest’ultimo. Secondo i principi greci questo era un errore, ma l’amore che provava non la affaticava solo emotivamente, ma anche fisicamente, così decide di rivelare tutto alla nutrice. Quest’ultima, per agevolare l’unione tra i due, rivela tutto a Ippolito vincolandolo col giuramento al silenzio. Ippolito è pieno di orrore e maledice l’intera stirpe delle donne. Fedra, che ha ascoltato tutto, si suicida e lascia una lettera a Teseo in cui scrive di essere stata violentata da Ippolito per mantenere alto il suo onore e la sua dignità. Alla fine si scoprirà la verità, ma per Ippolito sarà troppo tardi. Queste due tragedie mettono in luce un altro problema delle opere euripidee, ovvero il rapporto che Euripide aveva con le donne, cioè se fosse misogino o meno. La misoginia, d’altronde, aveva accompagnato la letteratura greca sin dalle sue origini. Esiodo, poeta didascalico dell’VIII secolo a.C., aveva disegnato proprio in una donna, Pandora, la nascita delle disgrazie per l’uomo (“Teogonia” e “Opere e giorni”). Di questo argomento si erano interessati già i commediografi della sua generazione, in special modo Aristofane. Ma la critica moderna ha deciso di leggere queste notizie, che sono presenti soprattutto nelle “Tesmoforiazuse” e nelle “Rane”, come documenti non storici, ma di pura calunnia. Alcuni si sono spinti oltre, leggendo in queste maldicenze l’amara verità che appariva agli occhi di Aristofane, ovvero gli antichi principi erano ormai decaduti, soprattutto dopo la morte di Euripide. Analizzando le due protagoniste emergono elementi a favore di entrambe le tesi. In Medea l’aspetto misogino è dettato dalla maledizione di Giasone (“Ah che odio, che donna, più d’ogni altra odiata dagli dei, da me, da tutto il genere umano: […] che tu possa morire”) nei confronti della moglie che non è più in grado di controllare la sua passione e arriva al gesto estremo dell’uccisione dei figli. Medea controbatte sostenendo che “fra tutti gli esseri, dotati di anima e ragione, noi donne siamo la razza più sventurata (vv. 230 ss.)”. Ugualmente è per Fedra nell’“Ippolito” che è tormentata da questo desiderio per il figliastro (“ferita che fui dalla passione, architettavo in che modo resistere”), decise di suicidarsi e incolparlo. Inoltre, la tradizione ci tramanda che l’“Ippolito” fu il punto d’incontro tra i dispiaceri domestici (il tradimento della moglie e forse anche di una seconda) con l’arte del poeta e le sue espressioni artistiche (Euripide dice: “Le donne, poi, tutte caste parole, che di nascosto indulgono alle audacie più turpi, io le detesto”). Contemporaneamente le disegna come due eroine tragiche che si ribellano ai principi del tempo. Tra i gesti più forti vi è certamente la negazione di essere stata ripudiata da Giasone (“Mai divenga felice un uomo turpe, mai beato chi mi strugge il cuore” vv.364 ss.), per questo diventa eroina e padrona di se stessa, mentre Giasone incarna la parodia del vero eroe tragico. Casi simili si leggono nella figura di Polissena nell’“Ecuba” alla quale viene dato l’onore della φυλλοβολία Rito funebre o nell’“Elena”, seppur causa dello scoppio della guerra di Troia (visione misogina), essa viene dipinta con tratti opposti alla tradizione trasformandola in simbolo di fedeltà (Elena, in Euripide, è ripresa dalla “Palinodia” di Stesicoro (VII secolo a.C.)). Si può, quindi, affermare che le donne euripidee convivono con entrambi i tipi di visione che possono essere dettati da elementi inerenti alla vita del poeta: Misoginia, se non più generalmente misantropia, in quanto lui aveva un carattere molto schivo e solitario, Φιλός γυναικός, i nuovi eroi sono le donne che vengono profondamente analizzate in tutti i loro aspetti, testimonianza anche della caduta dei modelli e dei ruoli tradizionali, non a caso l’uomo è rappresentato più debole. In Euripide convivono azioni reali e analisi psicologica dei personaggi femminili nei suoi aspetti positivi e negativi, da un lato la pazzia a cui può arrivare mentre dall’altra la convinzione che è necessario lottare per eliminare i pregiudizi.